top of page
Immagine del redattorenotiziario

Skipper per caso

Resoconto di un corso Skipper CVC da parte di un neofita di Caprera

Protagonisti: Alberto, Francesco, Serafino, Michele, Giorgio, Thomas (tutti già caprerini tranne lo scrivente...) e l’istruttore Giovanni.

Arriviamo al marina di Portisco dove avevamo appuntamento con il nostro istruttore Giovanni. Lo confesso, avevo paura. Una paura binaria.


Paura del CVC. Perché dobbiamo essere sinceri, il CVC fa paura e chi lo nega è un disonesto. Il Centro Velico Caprera ha una fama che viene da lontano. È, si sa, una scuola dura, un luogo dove insegnano (e qualcuno addirittura impara) ad andare per mare. È una scuola dove chi poltrisce è perduto e Dio solo sa quanto io sia pigro. È un posto dove vige uno schema che è contemporaneamente assai democratico e molto gerarchico, la qual cosa potrebbe sembrare un ossimoro, ma rappresenta alla perfezione la complessità della vita e di solito un buon equilibrio tra queste due forze garantisce il corretto funzionamento delle umane faccende.


Come sia sia, questa era la percezione che ne avevo… ma una certa attitudine masochista, la voglia di imparare qualcosa che non so e un amore sincero per il mare fecero si che, con timore appunto e largo anticipo, avessi deciso di affrontare la questione, iscrivendomi al corso SK40.


L’altra paura che gelosamente conservavo era quella di dover convivere con persone mai viste, di differente provenienza e cultura, in quel che resta della metratura quadrata di un 42 piedi. Ho un età, delle abitudini, delle piccole quotidiane esigenze e l’idea di dover rivedere il modello collaudato anche solo per sette giorni mi inquietava.


Avevo scelto il mese di ottobre nella speranza che il corso non fosse troppo frequentato; pensavo di trovare al massimo due o tre allievi più l’istruttore, e che quindi quattro persone per sette giorni avrei potuto affrontarle.


Mi sbagliavo. Il CVC tira di brutto e la barca era al completo. Sette individui di sesso maschile (una aggravante) in sette metri quadrati per sette giorni. Tre volte sette, una faccenda esoterica direi.

Il primo di ottobre a Portisco tirava un maestrale sui 30 nodi. Fu immediatamente chiaro che il corso sarebbe iniziato a terra, con quelle informazioni necessarie sull’imbarcazione e tutta una serie di disquisizioni teoriche fondamentali e noiose. La barca si chiamava Praha, un Jeanneau Sun Odyssey 42 abbastanza vecchietto (parole testuali dell’istruttore), che ci aveva preventivamente avvertito su Whatsapp dopo averci anche inviato il contratto di locazione, una procedura che uno skipper deve conoscere, e il nostro era un corso Skipper.


Ora vorrei aprire una piccola parentesi: un corso Skipper è un errore formale. Al di là della qualità (e dico subito che personalmente il nostro lo rifarei 100 volte), è la definizione che mi lascia perplesso poiché in teoria, ma anche in pratica, un corso Skipper ha l’obiettivo di formare degli Skipper. Sono però convinto che la maggior parte delle persone che come me si iscrivono a un corso Skipper non abbia la reale intenzione di cambiare un lavoro che gli permette di iscriversi a un corso Skipper per diventare uno Skipper, vale a dire un marinaio in grado di gestire una imbarcazione che verrà pagata da un gruppo di vacanzieri spesso maleducati.


Quindi un corso Skipper serve, nella maggior parte dei casi, non tanto a creare degli skipper ma - più plausibilmente - a permettere di comandare con sufficiente perizia e sicurezza una imbarcazione stipata di persone care. Una cosa è certa: chi si iscrive a un corso simile soffre di una incertezza complessiva che si manifesta con precisione millimetrica appena si mette piede sulla passerella.


Un esperto marinaio certe cose le nota subito. E l’esperto marinaio tra noi era Giovanni. “Allora ragazzi, ci sono 30-35 nodi là fuori. Sono condizioni con le quali se avessi due o tre amici di cui mi fido, uscirei immediatamente. E sarebbe anche divertente, ve lo assicuro. Ma intorno a me vedo una banda di incapaci, quindi capirete che per oggi dal porto non usciamo.”


Nessuno ebbe il coraggio di contraddire. Annuivamo all’unisono come quei piccoli cani cinesi che qualcuno ancora osa mettere sul lunotto posteriore della macchina. D’altra parte il suo sguardo non lasciava speranza.


Non che fosse particolarmente aggressivo o burbero ma insomma, stavamo tutti prendendo le misure uno con l’altro e per noi incapaci (o diversamente competenti) Giovanni era sotto i riflettori: colui al quale affidavamo con moderata fiducia e incrollabile speranza le nostre vite. E a una osservazione attenta, benché necessariamente superficiale, tutto faceva sì che vedessi sorgere all’orizzonte i fantasmi dei miei timori iniziali.


Nel pomeriggio di quel primo giorno, dopo aver pranzato venne fuori un lato di Giovanni che molto apprezzai. Fece una domanda semplice: “Ma voi, la sapete lanciare una cima?”

Un silenzio rotto da timidi fonemi primordiali da parte del gruppo fu la risposta.


Si prese allora una cima da rimorchio (molto lunga, quindi pesante) e ci spostammo in una zona della banchina sufficientemente grande per mettere in pratica la scienza del lancio della cima, che Giovanni molto semplicemente spiegò; quindi introdusse il tema della competizione e istruì una gara tra noi per vedere chi l’avrebbe lanciata più lontano con sufficiente precisione. Cito questo episodio per due motivi: primo, è utile saper lanciare una cima e ora grazie a quell’esercizio ne ho almeno un’idea; secondo, pur non essendo il più prestante né il più giovane del gruppo, ho devastato i miei compagni con due lanci che vorrei definire straordinari.


E venne il giorno in cui salpammo.


Se considero la settimana nel suo insieme, devo dire che eccetto i primi due giorni di maestrale sostenuto con un avviso di burrasca sulle bocche di Bonifacio, zona verso la quale eravamo diretti e che convinse Giovanni a un rientro nel marina per dormire la seconda notte, nei restanti giorni la nostra navigazione ha goduto di un meteo ideale per un corso di formazione: un vento leggero e un mare calmo hanno accompagnato Praha nel suo itinerario. Questo ci ha permesso di completare il programma con buon profitto.

Solo domenica 2 ottobre, prima di quell’avviso di burrasca, avevamo avuto a che fare con un maestrale ancora sostenuto, anche se in attenuazione rispetto al giorno precedente, ma niente di veramente ingestibile anche per un equipaggio che, oltre a essere scarso, non si conosceva. Questo ha dato la possibilità all’istruttore, in alcuni momenti, di farci assaporare l’adrenalina conseguente al classico cazziatone; ma il suo modo di alzare la voce non era mai veramente violento, anzi sovente accompagnato da metafore divertenti.


Questo modo di fare spazzò il campo una volta per tutte dal timore sopra citato che coltivavo nei confronti del CVC, il quale tra l’altro era una meta di Praha sia all’andata che al ritorno, con la promessa di una visita a terra quando ci saremmo tornati giovedì 6, e la possibilità di qualche acquisto allo spaccio; di questo ero davvero curioso. La paura quindi cominciava a trasformarsi in desiderio, come spesso accade nella vita.


In più le belle giornate e il paradiso che ci si parava di fronte aiutavano la convivenza a bordo. Nei momenti di pausa pomeridiana, a fine giornata, alla fonda in rada, gli ultimi bagni di stagione, poi la buona cucina di chi era di comanda, i tramonti che avrebbero lasciato spazio di lì a poco al cielo stellato, quel modo unico che si riserva il mare all’imbrunire, tutto convergeva verso una armonia.


La fatica del navigare, le manovre necessarie, erano mitigate sia dalla conformazione del corso itinerante e sempre a bordo, sia dalle rotte che seguivamo, in quell’arcipelago baciato dal Signore, con un delfino venuto a salutarci, in navigazione notturna verso Santa Teresa, nel risveglio in quel marina dai bagni pulitissimi, nell’arrivo a Bonifacio con le sue scogliere bianche e nelle due notti a Porto Palma, uno dei posti più belli che abbia mai visto. Per questi motivi i miei cinque compagni, a turno, non hanno mancato di comunicarmi con affetto e quella bonaria superiorità di chi ha visto ben altro, che quel corso, comparato alle multiple esperienze che ognuno di loro aveva vissuto alla base, era sostanzialmente una vacanza. Giovanni confermava annuendo.

La cosa avrebbe forse dovuto produrre in me una minima insoddisfazione, come a chi si sta impegnando con fatica per un risultato che reputa importante e gli si dice che la partita vera si gioca altrove, ma per qualche motivo a me ignoto stava producendo in me sensazioni piacevoli: da un lato l’accomodamento in una zona di confort “se è una vacanza” pensavo “me la godo”. I fastidi erano in effetti relativi, stavo imparando un sacco di cose, la compagnia si rivelava via via più confidenziale e piacevole (è pur vero che Giorgio, mio compagno di cabina, è forse l’uomo più disordinato dell’emisfero occidentale: aveva portato bagagli utili per una circumnavigazione del globo senza scalo, ma tutto sommato avevo capito velocemente come trovare spazi vitali in quel bailamme di capi super tecnici e borse da spedizione antartica) e quindi cominciavo a stare davvero a mio agio.


Tra l’altro l’elasticità mentale del nostro comandante, che dormiva sacrificato in dinette, mi permetteva di soddisfare una abitudine che nella base di porto Palma non solo mi verrà negata, ma costituirà un giudizio definitivo e negativo nei miei confronti e forse anche la lapidazione pubblica eseguita con vecchi bozzelli e gallocce in disuso: ovvero, un thermos di caffè opportunamente preparato la sera prima, che potevo sorseggiare in coperta intorno alle 5 di mattina (mi sveglio sempre presto), nella convinzione di fare tutto talmente piano che non avrei disturbato nessuno. In realtà rompevo le scatole a tutti, perché su un 42 piedi se cammini in coperta come un maestro zen che pratica l’arte del passo felpato (e comunque non era il mio caso) sottocoperta tutto rimbomba e struscia amplificato e a parte Michele, che si sarcofagava nel sacco a pelo munito di mascherina e tappi di cera nelle orecchie, per tutti gli altri deve essere stato davvero noioso… di questo ho la certezza perché il penultimo giorno, sulla via del ritorno, quando dormimmo per la seconda notte alla base, questo mio difetto ha suscitato la reazione nervosa dell’istruttore che esasperato mi ha cacciato letteralmente dalla barca con un: ”Dai, vai fuori! Prendi il tuo c...o di thermos e vattene!”.

Sono permaloso e lì per lì mi sentii offeso, ma poi ho compreso: è una abitudine, la mia, che non si sposa con la filosofia del centro, con la condivisione di tutto, con il fare insieme, con la pazienza necessaria non solo al navigare. Cominciava a essere chiaro in me il perché il CVC sia considerato più una scuola di vita applicata al mare e all’andar di vela che semplicemente un luogo dove si impara a navigare. E poi Giovanni è stato molto bravo a coinvolgermi nella successiva visita alla base, in quel luogo magico che è Porto Palma, così che cominciavo a sentire nascere in me, forte, la voglia di tornarci, di conoscerlo meglio quel posto, di fare altri corsi e altre esperienze, per sentirla parlare più chiaramente questa anomalia virtuosa che il Centro Velico di Caprera rappresenta da quando un piccolo gruppo di visionari lo ha prima immaginato e poi reso possibile.


A queste persone dobbiamo esser grati, regalare i nostri migliori pensieri alla memoria di chi non c’è più e la nostra migliore energia nel rispetto dovuto a chi ancora oggi rappresenta il baluardo mnemonico di un modo diverso di concepire l’esistenza; un mondo sospeso nel tempo, a parte, che prevede un vero senso della collettività di cui abbiamo sempre più impellente necessità sociale; la genesi è preziosa e camminando per gli sterrati che sfiorano i tucul dove allievi e istruttori si coricano, ho avuto la netta sensazione che ogni sasso, ogni cespuglio, ogni animale nascosto nella macchia, ne raccontasse virtù, e in ogni angolo ne ho respirato giustizia.


Conclusione: comunicazioni personali ai naviganti.

Alla fine voglio bene a questi disperati che ho incontrato sul mio cammino. Alla fine siamo stati valutati tra il “sufficiente” e il “discreto”, a parte il “buono” del secchione Michele. Alla fine si intravede un inizio, poiché certamente seguirò l’indicazione di un corso alla base che sia un C2 o un C3 o forse un C2 e un C3 in rapida successione. Vedremo, tempo permettendo (non in senso di meteo perché si sa che i Caprerini se ne fottono del meteo avverso ed escono sempre, in qualsiasi condizione).


Insomma, è andata più che bene e credo che Giovanni abbia potuto osservare un miglioramento accettabile dal primo giorno all’ultimo, un assortimento in crescita nel gioco di squadra che un equipaggio è obbligato a mettere in atto. Francesco ha dimenticato degli stivali a bordo e Alberto una giacca. Gli stivali ce li ho io (e sei fortunato che non abbiamo lo stesso numero Francesco, altrimenti col cavolo che te li restituivo, ma devi venire tu a prenderli a casa mia).


La giacca l’abbiamo restituita sulla strada per l’aeroporto; Alberto ci aspettava al bivio con porto Cervo perché ha lì una casa (e non aggiungo altro). Pretendeva di farci fare addirittura una deviazione! ma lo abbiamo costretto a pedalare fino al bivio e gli abbiamo lanciato la giacca dal finestrino quasi senza fermarci.


Eravamo tutti un po’ stanchi e nervosi perché avevamo un timing sbagliato con i nostri voli; ma come spesso accade si fa di necessità virtù. Nell'attesa ho rimediato un buon consiglio da Giovanni per una lettura di mare che condivido: “Tifone” di Conrad, bellissimo. In questi giorni ho rinforzato questo tipo di cultura con “La lunga rotta” di Moitessier e “A voyage for madmen” di Nichols entrambi sulla Golden Globe del 1968, entrambi ottimi… Non è nemmeno così male essere un avventuriero da poltrona: è un luogo, la poltrona, che padroneggio abbastanza bene, faccio molte miglia al giorno, affronto marosi impressionanti con grande coraggio e strambo alla grande dal pozzetto vellutato del mio salotto.

L’ultimo giorno a corso terminato, abbiamo incontrato Marzio Rotta, storico coordinatore della base sin dalla primo giorno, custode di una memoria storica, un uomo importante che ha partecipato attivamente al processo fondativo e di avviamento del Centro Velico… Due chiacchiere veloci e un ricordo di Gian Maria Volontè (vedi foto) che di Caprera è stato prima allievo e poi istruttore: un ricordo molto significativo per me che mi muovo da 30 anni nel campo dell’arte drammatica. Volonté è stato genio assoluto e ricordarlo come Marinaio lo ritengo segno di buon presagio: noi marinai, si sa, siamo attenti ai presagi perché, anche dalla poltrona, sappiamo che il cielo ha la sua importanza, soprattutto quando decide di proteggerci.


193 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Kommentare


bottom of page